XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al Tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto ciò che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta, sarà umiliato; chi invece si umilia, sarà esaltato». Luca 18,9-14
È il dilemma di sempre: posso dirmi giusto davanti a Dio? Gesù non distingue fra giusti e ingiusti (è venuto per i peccatori! -Mc 2,17), ma tra chi si crede giusto e chi si crede peccatore. Se i primi tendono a esibire qualcosa di sé per “convincere” Dio della loro bravura a scapito di altri, ai secondi corrisponde la consapevolezza di essere “l’ultimo anello della catena alimentare”, perciò gli rimane solo la fiducia nell’implorata benevolenza di Dio. Perché questi sono graditi a Dio? Per il semplice motivo che non fanno della loro condizione un motivo per escludere, per separarsi dagli altri. È la porta per accedere a un perdono dolce, mite, lieto.
«Per cui scongiuro, nella carità che è Dio, tutti i miei frati occupati nella predicazione, nell’orazione, nel lavoro, sia chierici che laici, che cerchino di umiliarsi in tutte le cose, di non gloriarsi, né godere tra sé, né esaltarsi dentro di sé delle buone parole e delle opere, anzi di nessun bene che Dio fa o dice e opera talvolta in loro e per mezzo di loro, secondo quello che dice il Signore: “Non rallegratevi però in questo, che i demoni si sottomettono a voi”» (FF 47).
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