Il coro: luogo della preghiera, metafora della vita
«Se può, venga entro le 17,45, dopo andiamo in coro…».
Dall’espressione perplessa della mia interlocutrice capisco… che non ci siamo capite. Eh sì, nel linguaggio comune la parola “coro” evoca un gruppo di persone che cantano, non un ambiente! In un monastero, invece, il coro, o la cappella, è uno degli ambienti essenziali, che vede riunirsi tutta la comunità più volte al giorno per la preghiera liturgica e personale. Se la preghiera è la nostra attività fondamentale, è altrettanto importante avere un luogo preciso per pregare. Un luogo che faciliti il raccoglimento e la lode comunitaria, “abitato” dalla Presenza di Gesù nell’Eucaristia, che diventa il cuore pulsante della casa.
Nelle Fonti Francescane la parola coro è citata pochissime volte, giusto come indicazione di luogo. Quasi sempre quando si parla della preghiera comunitaria non si specifica dove essa si svolga, o si parla semplicemente di “luogo della preghiera”. In questo ha influito sicuramente la scelta di povertà, e quindi di non avere costruzioni particolarmente “ricche” come potevano essere quelle della tradizione monastica. Tuttavia penso che lo spazio del coro ci parli di qualcosa che è molto presente nell’esperienza di Francesco e Chiara.
Il nome “coro” ci ricorda che chi si riunisce a pregare è un “coro”, un gruppo, di sorelle nel nostro caso, che pregano insieme, ad una voce sola. Lo chiediamo allo Spirito Santo nell’inno dell’Ora Terza, la preghiera delle nove del mattino: «Voce e mente si accordino nel ritmo della lode, il tuo fuoco ci unisca in un’anima sola». Il coro come luogo dell’unità, interiore e fra le sorelle. Un’unità non immediata, che richiede una disciplina: ascoltarsi, non alzare la voce per non coprire quella delle altre, imparare a respirare insieme. Significa “morire” al proprio modo di pregare, ai propri gusti, per fare l’esperienza di “risorgere” nella comunione di un coro che canta o prega a una voce sola. Allora si scopre la preghiera come espressione di un corpo, il Corpo di Cristo che è la Chiesa; non siamo più degli individui che pregano uno accanto all’altro, ma persone che pregano insieme. E accade una specie di “miracolo”: se preghiamo a una voce sola, non si sente più tanto chi ha la voce migliore o peggiore, chi ha più fiato o chi ne ha meno, perché ciò che una ha “in più” va a beneficio di tutte, e la debolezza di una è sostenuta da tutte. E questo non accade solo in coro! Ha a che vedere con la vita, che ogni giorno ci chiede di ascoltarci, di “andare insieme”, di morire ai nostri particolarismi per risorgere nella comunione. Così la preghiera è un allenamento per vivere “in santa unità” ed è anche la verifica delle nostre giornate, di quanto sappiamo camminare insieme.
E non è questa, in sostanza, la vita evangelica di Francesco e Chiara? Una vita «in santa unità e altissima povertà»: così la definisce la lettera del cardinale Rainaldo che introduce la Regola di S. Chiara (RsC 16: FF 2749), dove lo spogliarsi di ogni possesso custodisce la fraternità e rende tutta l’esistenza un canto di lode all’Altissimo.
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