Dalla svestizione al ritorno ad Assisi
La svestizione, in quello spazio scenico, con a fondo il tempio di Minerva, segnò per Francesco la consapevole presa di coscienza di un’esistenza da spendere, conformandosi unicamente a Cristo, ai suoi precetti, ai suoi insegnamenti, accompagnato dalla sola Madonna povertà, l’unica capace di liberare l’uomo da ogni tentazione mondana.
Uscito da Assisi, ormai libero dagli spasmi dell’inquietudine, fermo e fiero della sua conversione, Francesco si rifugiò, per intercessione del Vescovo Guido, presso il monastero di San Verecondo a Villingegno.
Ma la vita monacale, scandita da movenze, tempi e ritmi, ripetuti nel chiuso di poderose mura e di ombrati chiostri, non era quella a cui aspirava quel menestrello d’amore, che avvertiva il bisogno di sentirsi creatura partecipe ai fermenti del creato; così, nonostante i buoni rapporti con i monaci, decise di lasciare il convento e, indossati i panni del mendicante-penitente, si diresse alla volta di Gubbio, dove fu ospite di un vecchio conoscente.
Passò del tempo, si era ormai nel cuore dell’inverno quando, Francesco, sentendosi pronto di onorare il suo debito col Signore, decise di ritornare ad Assisi.
Congedatosi col vecchio amico, che unitamente ad un po’ di cibaria, gli fece dono anche di una “povera tonachella”, si mise in cammino, in direzione della sua città natale, sotto un cielo plumbeo, gravido di neve, cantando in lode a Dio improvvisate rime in provenzale.
Ma in una di quelle fitte e innevate selve, che occultano i tratturelli, noti a chi sovente transita su quei luoghi, d’improvviso, sbucata dal nulla, mimetizzata alla boscaglia, fu assalito da una banda di briganti, che, circondatolo, con toni minacciosi, gli chiesero chi fosse. Francesco, festante, rispose: «Io sono l’araldo del gran Re».
Allora i banditi, resi ancor più vili dal suo stato miserabile e dal mancato bottino, lo gettarono in un fosso colmo di neve, dicendo: «Sta lì rozzo araldo di Dio» e, imprecando, con perfida derisione, s’allontanarono. Subito egli saltò fuori dal fosso e per niente turbato, scuotendosi la neve di dosso, continuò a cantare e proseguì il cammino, ringraziando il Signore per avergli concesso il dono della sopportazione. Giunto alle soglie di Assisi, si diresse verso San Salvatore, per andare a vivere con i lebbrosi; era quella, per ora, la sua casa e la sua famiglia.
Per sopravvivere ed assolvere al suo pegno con il Signore a Francesco non restava altra soluzione se non quella di mendicare.
Così, colui che fino a poco tempo prima era conosciuto ad Assisi come un giovane ricco, allegro, ambizioso, accurato ed elegante, sempre disponibile a feste e conviti, s’aggirava ora per le strade del borgo ad elemosinare miseri resti di cucina e “olio per il Santissimo”; e poi, faceva davvero pena, ai tanti che prima lo invidiavano, vederlo vestito da eremita, con una tonachella serrata in vita da una cinta di cuoio, calzato di rigidi sandali, sostenuto ad un ruvido bastone d’olmo, a chiedere con voce da banditore nelle piazze e tra i rioni pietre e calcina per San Damiano, assicurando, in cambio di ogni offerta ricevuta, una ricompensa divina.
(da “Nacque al mondo un Sole” di Nicola Savino/6)
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