Il Signore mi diede…
Il Testamento trasmette l’esperienza fondamentale che Francesco ancora ricorda. Tutti ricordiamo in modo selettivo, arricchendo i ricordi di quello che sono diventati nella nostra storia, della forma che hanno preso. Ciò che è stato intuito all’inizio, nel momento decisivo delle scelte, dell’amore, della conversione, da una parte si fissa per sempre, dall’altra cresce costantemente con la storia della persona, fino a costituirla in modo sempre rinnovato. Quando andiamo a ricordare ciò che è stato decisivo per noi, quindi, non ricordiamo solamente ciò che è stato, ma ciò che da questo è scaturito, ciò che quell’evento originario ci ha fatto diventare. Anzi, quasi sempre è ciò che è venuto dopo a svelarci quanto era stato significativo quel primo momento e quindi a renderlo pieno di significato: il primo bacio dato all’amore di una vita è così importante solo quando so che ho baciato l’amore della mia vita, ma questo non si sa mai al primo bacio.
“Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così”. All’inizio di tutto Francesco pone il Signore: è lui il protagonista della sua storia, colui che l’ha plasmato e condotto. Questo non si può dire all’inizio di un’esperienza cristiana, si può dire però con il passare degli anni. Ci si può fermare, guardare ciò che si è vissuto e riconoscere la mano di Dio. È il Signore che ha dato a Francesco di fare penitenza, non è stata una sua iniziativa. Egli non mette davanti le sue intuizioni o le sue abilità, ma la fantasia amorosa e provvidente di Dio: il Signore si fa vicino e dona la conversione.
E così Francesco racconta all’inizio del Testamento la propria conversione. Il Signore stravolge i suoi gusti, trasforma ciò che gli sembrava amaro in dolce e viceversa. I lebbrosi gli facevano ribrezzo, forse per timore del contagio, o più probabilmente per quel senso di paura che il male altrui suscita in quanto dichiara la nostra povertà, la nostra miseria. Abbiamo paura e fuggiamo la morte altrui, perché sappiamo che siamo mortali e la morte altrui ci fa da specchio. Ma Francesco smette di temere, quando impara la misericordia: gli viene donato di usare con i lebbrosi misericordia e così scopre che non è importante nemmeno per lui essere misero, non vuole più avere aspettative grandiose e altisonanti, ora sa che essere piccoli non è un limite, ma una risorsa, perché il Signore è il misericordioso, che si china sui piccoli. Cambia così i propri gusti: se il Signore si fa vicino ai piccoli, allora tanto vale essere piccoli, anzi più piccoli si è, meglio è. E così abbracciando il lebbroso, Francesco abbraccia se stesso, la propria povertà uguale a quella dell’altro, la propria miseria condivisa col fratello.
E, per dono di Dio, questo non gli sembra più terribile: si rovesciano i valori di prima. Francesco non ricorda più che voleva essere cavaliere, ricorda solo il volto sfigurato di un povero lebbroso, da cui ha imparato ad abbracciare la propria piccolezza per scegliere di essere frate Francesco piccolino. Allora è cominciato tutto.
(Il Testamento di san Francesco/3)
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