Giovedì X Settimana del Tempo ordinario
2Cor 3,15-4,1.3-6 Sal 84 Mt 5, 20-26
“Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12)
Gesù non proclama una nuova legge, ma porta quella antica al suo perfetto compimento. Già secondo la Torà, non poteva essere rimesso da Dio il peccato compiuto contro il fratello, ma solo da chi era stato offeso. L’atto di uccidere è preceduto da qualcosa che solitamente nasce dentro e cresce pian piano. L’orgoglio scatena l’ira, il pensiero la alimenta, la parola prende forma, diventa offesa, colpisce, ferisce: “stupido, pazzo”… Questi sono già dei movimenti interiori che il Signore ci domanda di guardare con estrema sincerità. Ci chiede di fermarci, ascoltarci, di fermare il “nemico” che è velocissimo, spietato, se non è smascherato con sollecitudine da una buona e viva coscienza. Occorre disarmarlo, chiamando il male con il proprio nome, scegliendo la strada dell’umiltà, ritornando con coraggio sui propri passi. Questa è certamente l’offerta gradita a Dio.
«Francesco ottenne la dolcezza dell’anima e del corpo, cioè dell’intera sua esistenza proprio quando smise di cercarla per entrare nella propria e altrui fragilità. Trovò la vita quando accettò di perderla. (…) Rifiutò per sé stesso la logica del mondo, quella che poneva nel cavaliere l’ideale definitivo di ogni esistenza, in colui, cioè, che aveva superato ogni fragilità ed era diventato il vincente. E abbracciò la pazienza e l’umiltà della fragilità. L’uomo si libera e vive in pienezza quando accoglie per amore e nella docilità la sua condizione di limite, diventando solidale e attento alla povertà degli altri. La misericordia donata ai lebbrosi non fu, dunque, un atto ascetico né eroico, (…) ma l’inizio di una logica esistenziale nuova, quella proclamata e vissuta dal crocifisso risorto».
(P. Maranesi, La fragilità, fonte di verità e di vita secondo Francesco)
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